Stiamo vivendo un paradosso sociale, a mio avviso. Nell’era della digital transformation, la necessità di collaborare e creare relazioni “buone”, non solo sul lavoro ma anche nella vita privata, cresce.

Dobbiamo necessariamente saper lavorare trasversalmente e costruirci le nostre “community” per sopravvivere all’interno di una società che non è più in grado di “provvedere a noi”. Quelli che una volta erano i pilastri sociali: governo, istituzioni, scuola e azienda, oggi, non possono garantirci un bel niente. Il governo non può più, ad esempio, garantire le pensioni (chissà che fine faranno le casse del nostro stato per noi quarantenni se ci bruciamo il fondo di bottiglia con il reddito di cittadinanza), le scuole non ci possono più garantire una istruzione adeguata (quello che imparano i ragazzi oggi domani non serve), le istituzioni non ci possono garantire assistenza (la sanità sta crollando, non ci sono medici a sufficienza, non ci sono infermieri, non c’è assistenza agli anziani) ed infine, spero non sia una novità, le aziende non ci possono garantire un posto di lavoro. Ergo: dobbiamo assumerci la responsabilità del nostro futuro e magari, già che ci siamo, del nostro presente, senza quindi contare su paradigmi sorpassati, obsoleti e ammuffiti del passato. Come? Attraverso la costruzione di una rete di relazioni, le community.
- Community al lavoro per gestire progetti trasversali in modo efficace ed efficiente
- Community nella vita privata per sopravvivere non solo con dignità ma anche felicemente a questo Tsunami sociale della digital transformation che ci sta investendo.
Community al lavoro
Preferisco parlare espressamente di community piuttosto che di team. Il team è un gruppo formalmente riconosciuto che lavora insieme su compiti e progetti mappati all’interno dell’organizzazione. La community va oltre, è un gruppo informale, fluido e agile, un gruppo che la Direzione Risorse Umane di una azienda non può vedere, quello che non viene riconosciuto nel sistema incentivante, quello che non ha una sigla di reparto e neppure un nome, quello che non ha un capo o un responsabile di progetto, eppure è il gruppo che ottiene risultati migliori, perché i membri della community si supportano a vicenda a prescindere, perché, molto più che veloci, sono agili e trasversali. Non servono riunioni di allineamento, non servono meeting, non servono protocolli, funziona e basta perché i suoi membri si sentono bene, accolti, ascoltati, compresi, emozionalmente “connessi”, possono permettersi l’errore senza essere giudicati e continuano ad esplorare nuove soluzioni e perché all’interno di quella precisa community si divertono pure. Le community al lavoro sono phygital e multicanale: si mandano messaggini sul gruppo whatsapp, chattano con skype for business, si sentono al telefono se non trovano in quale benedetta circolare sta descritto il processo che cercano, hanno documenti condivisi su google drive ma si vedono anche alla macchinetta del caffè e se si incrociano in corridoio (quando non fanno smart working) basta un sorriso d’intesa: hanno un forte digital mindset e agiscono tra loro l’intelligenza emotiva ed insieme sono altamente performanti. La community non è da confondere con un gruppo di amici e non necessariamente si vedono fuori dal luogo di lavoro ma sono allineati emozionalmente tra loro, danno l’impronta alla cultura aziendale e speed al business.
Community nel privato
Un giorno, quando sarò vecchia, avrò la “mia community”. Potrò pensare di organizzarmi con le amiche in una community dove condividere la badante e alla sera giocare a Burraco insieme (oddio, spero di poter viaggiare fino a quando sarò in vita ma se la salute non mi assiste, preferirei Burraco con le amiche alle parole crociate in solitudine!). Non è una visione nostalgica delle community dei nostri nonni, va oltre. Saremo phygital, avremo spazi fisici condivisi dove cucinare un piatto caldo insieme, l’IoT (Internet of Things) ci aiuterà a non alzarci troppo spesso dalla nostra poltroncina per accendere la luce perché basterà urlare (mi spiace ricordarvelo ma saremo un po’ sordi e nemmeno ce ne accorgeremo!): “Alexa accendi la luce”, oppure “Alexa accendi il microonde che mi scaldo la minestrina”! Siccome avremo sviluppato la nostra behaviour agility all’interno del nostro Digital Mindset sapremo usare perfettamente in autonomia la tecnologia e quindi non sarà necessario attendere che i nostri nipotini ci vengano a trovare per impostare Alexa o per farci l’ordine della spesa online (non sia mai che mi metta a girare con il carrellino a fiori della spesa all’età di ottant’anni!). Per poter avere le nostre community di domani e non morire di stenti e solitudine sotto le grinfie di una badante disinteressata, mandata dagli assistenti sociali (se ancora ci saranno), e che ci chiederà i soldi della pensione che non avremo più, e se vogliamo avere successo nel lavoro attraverso un network informale ma efficace, allora, all’interno del nostro digital mindset dobbiamo sviluppare la nostra social agility, costruendo oggi relazioni di valore, sviluppando oggi la nostra intelligenza emotiva. E invece, paradosso sociale, proprio questa sta diminuendo. Come mai?
Ogni cambiamento è fonte di stress
L’innovazione tecnologica ci aiuta, ci rende più veloci e più precisi, se la conosciamo e se la sappiamo usare a nostro beneficio. Non serve essere smanettoni ma dobbiamo capire cosa la tecnologia può fare e come funziona. La tecnologia ha un paradosso in sé che va gestito e non demonizzato con la solita nostalgia vintage che ci fa dire “stavamo meglio quando stavamo peggio” (mi fanno un po’ sorridere infatti i video sugli anni ottanta con quella sorta di nostalgia vintage su come la tecnologia ci abbia allontanati dalla relazione umana). La tecnologia non aliena l’uomo, non ci allontana dalle relazioni, siamo sempre connessi, siamo sempre ALL-LINE, solo che ora fluidamente ci muoviamo dal like su facebook online all’incontro per l’aperitivo offline. Per non diventare dei bulimici asociali digitali dobbiamo capire quando siamo online e quando offline, dobbiamo imparare a gestire questa fluidità digitale in equilibrio relazionale ed emozionale. È vero anche però, che lo stress a cui siamo sottoposti è crescente: lo smartphone ci tiene connessi 24h su 24h, è ansia totale se lo dimentichiamo a casa (e vorrei sapere chi non torna indietro a riprenderlo perché altrimenti come gestiamo gli appuntamenti della giornata?), lasciarlo anche solo in borsetta mentre siamo in riunione è assolutamente impensabile, come se qualcosa di particolarmente catastrofico possa succedere proprio in quell’ora in cui non vediamo lo schermo con la coda dell’occhio oppure non sentiamo la suoneria dei messaggini (e poi chi se ne importa se chi ci sta intorno è innervosito dai continui bip bip o fischietii dei nostri 200 whatsappini ogni ora!) Grazie alla tecnologia siamo diventati ancor più veloci ancor più multi tasking, ancor più predittivi, ancor più pre-occupati. Riusciamo a capire in tempo reale cosa succede a migliaia di chilometri di distanza e riusciamo letteralmente ad anticipare il futuro. Siamo in grado di venire a conoscenza in tempo reale di un incidente sulla A4 che ha coinvolto quattro auto e ci sentiamo in dovere sociale di mandare un messaggio a tutti coloro che a quell’ora sappiamo che fanno quel tratto di autostrada per accertarci che stiano bene. Siamo in grado di sapere dalla chat delle mamme che domani c’è l’interrogazione di storia ancor prima che tuo figlio ti abbia detto cosa deve studiare così possiamo anticipare alla babysitter quello che lui, da lì a due ore, dovrà studiare. Siamo “predittivi” in tutti i sensi. E vogliamo parlare delle rassicurazioni su Facebook degli amici oltreoceano perché hanno sentito di un terremoto in Italia come se Verona e Amatrice si trovassero sullo stesso francobollo di terra? (Va beh che l’Italia rispetto all’America è piccola ma un pochino di geografia non guasterebbe agli amici del nuovo continente…) Oppure quando il 31 ottobre 2017 ho appreso dai social che, mentre ero a New York, c’era stato un attentato e i miei amici da Poggibonsi sapevano tutto il caos scoppiato vicino al World Trade Center a Lower Manhattan in tempo reale, mentre io, arcibacco, ignara di tutto e con cellulare scarico, passeggiavo beata a Central Park e non avevo sentito nulla a parte qualche sirena…. Eppure, loro a Poggibonsi, sono andati in panico totale perché non rispondevo. Messaggi ansiogeni. Stress, stress, stress. Più aumenta lo stress e più la nostra intelligenza emotiva diminuisce. Come mai?
È una questione di sopravvivenza
Lo spiegano le neuroscienze: una maledetta spirale neurologica. Il nostro cervello reagisce in modo naturale allo stress, tutto il superfluo, o meglio, tutto ciò che non è strettamente necessario alla sopravvivenza del qui ed ora, viene eliminato o per lo meno parcheggiato a data ed uso da definirsi. L’intelligenza emotiva, la relazione con gli altri, l’ascolto, la comprensione dei propri sentieri emozionali, l’ottimismo e l’empatia per chi ci sta vicino, non sono fondamentali alla nostra contingente sopravvivenza, sono una questione di medio lungo termine, ora non fondamentale alla sopravvivenza nell’oggi. Pertanto mettiamo una bella P di parcheggio alla nostra intelligenza emotiva se non la utilizziamo per nulla.
Meno utilizziamo l’intelligenza emotiva più aumenta lo stress
Qui il punto nodale del paradosso: proprio adesso, nell’era della digital transformation siamo così sopraffatti dallo stress che questa trasformazione comporta che parcheggiamo la nostra intelligenza emotiva. Più a lungo lo facciamo più lo stress aumenta e la sensazione di non poter essere noi agenti di questa trasformazione più la temiamo. Più la temiamo, più non la affrontiamo: non mi riguarda, ci penseranno i “Millennial”, forse. Oppure no, perché a loro chi lo insegna? In questo stato di “ostaggio emotivo” la visione negativa sull’impatto tecnologico dilaga, la convinzione che l’intelligenza artificiale non sarà più a servizio dell’uomo ma prenderà il sopravvento, si fa spazio nella nostra mente, sembra concretizzarsi. L’apocalisse tecnologica ci vede già vinti ancor prima di aver giocato la partita. Possiamo evitarlo? Certamente sì: sviluppando l’intelligenza emotiva.